Giovanni Paolo II – Benedetto XVI
Grazia e Provvidenza Divina
Dalla sua pienezza noi tutti
abbiamo ricevuto grazia su grazia.
Giovanni 1, 16
Nel cuore dell’uomo è custodita una Stella, piena di Vita, colma di Gioia. Quella Stella che ha preceduto e ha indicato ai Magi la Via per trovare la Verità: il Cristo liberatore, la sorgente della salvezza e della felicità.
Per raggiungere lo splendore
che ogni nostra azione dovrebbe avere, dobbiamo sempre interrogarci riguardo al
nostro cammino, dobbiamo sempre chiederci se stiamo percorrendo il sentiero
della Verità e della Vita, il percorso della Bontà e dell’Amore.
Quando
si accende la Stella, tutta l’Anima viene irradiata di lucente forza e di Gioia
incontenibile, nasce un nuovo Cuore, abitato e visitato dallo Spirito Santo.
Dopo
aver incontrato la Luce del Mondo non si è più soli, e questo ci permette di
rivolgere lo sguardo e attingere a nuove forze, forze di Comunione con Lui,
forze che ci danno il Coraggio di vedere la Vita in modo nuovo, il Coraggio di
cambiare strada, proprio come fecero i Magi al ritorno da Betlemme: presero
un'altra Via.
Anche
Tu, se vuoi entrare nella Vita, devi seguire la strada che ti porta ad essa;
attraverso quella fiamma verde che è un filo d’erba calpestata da tutti, puoi
apprendere il miracolo della vita nascente. Vieni e seguimi, dice Gesù anche
ora, a Te. Ma Tu sei libero, proprio come era libero il primo uomo, puoi
decidere. Devi chiedere alla Tua coscienza, alla Coscienza di Vita, se le Tue
azioni sono veramente libere e per chi lo sono.
Siamo
veramente liberi quando seguiamo l’esempio del Cristo che è vero Amore, poiché
la Libertà è la massima espressione dell’Amore Universale che vive per sempre
di Luce nella Verità.
In
questo cammino verso la Libertà, possiamo scorgere la presenza operante, il
disegno e la mediazione, l’aiuto e la disposizione, il favore e il soccorso
gratuito, l’amorevole Bontà infinita della Provvidenza Divina, in un dipinto ad
opera d’arte, che illustra un Dono d’Amore e che è intessuto di Sapienza e di Grazia,
identificate attraverso la Fede cosciente.
La Provvidenza Divina è il divenire che
conduce alla Perfezione: esige da noi con insistenza che liberiamo noi stessi
dall'antica schiavitù, per rinascere in Cristo.
Anche
il dolore può essere una grazia. L’uomo non è nato per vivere nella sofferenza,
tuttavia può scoprirne il senso salvifico. La sofferenza non è un male che
distrugge ma è un bene creativo che eleva, corregge e converte, è una prova,
un’educazione redentiva poiché, legata all’amore, crea il bene ricavandolo dal
male, conducendo una forza che avvicina alla Gloria eterna in unione con
Cristo.
Il
male entra nell’uomo attraverso la seduzione e la menzogna, rendendo l’essere
umano uno schiavo incosciente. Tuttavia, secondo le parole che Giovanni Paolo
II scrive nella sua bellissima Enciclica “VERITATIS SPLENDOR”: «nessuna tenebra
di errore e di peccato può eliminare totalmente nell’uomo la luce di Dio
Creatore» e ancora: «tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il
silenzio non riescono a soffocare la voce del Signore che risuona nella
coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo sacrario della coscienza che
può ripartire un nuovo cammmino di amore, di accoglienza e di servizio alla
vita umana».
Magistrale è nel film Suspiria di Dario Argento e Daria Nicolodi (primo capitolo della trilogia), la presenza della Mater Suspiriorum, in un capolavoro di immagini, suoni e colori che gronda acqua nel nero buio del Mistero, penetrato dal rosso veicolo dell’io, dove, una bianca colomba luminosa che è la giovane protagonista, cerca di scoprire la Verità, grazie all’aiuto della sua forte volontà più volte osteggiata e indotta al sonno. Due domande particolari trovano risposta in questo film:
Il Figlio di Dio è apparso per mostrare
all’uomo come trarre dal male un bene più grande. Egli è questa Luce che
illumina, trasforma e redime il male con il bene, con quella virtù più forte
della morte che è l’Amore, seguendo la Vita.
È questa, ci ha detto Benedetto XVI a Colonia, durante la XX Giornata
Mondiale della Gioventù: «la fissione nucleare portata nel più intimo
dell’essere – la vittoria dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla
morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può
suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il
mondo».
Quindi,
in tutti i campi, il male va vinto rinforzando e sviluppando quel bene, quel
terreno fertile che ancora è presente in chi sembra guidato dal male. Abbiate
fede nella Grazia e Provvidenza Divina poiché proprio attraverso la Fede, Voi
aprite quella porta che permette ai raggi di entrare nella vostra casa, nel
vostro corpo, nella vostra anima. Aprite le finestre della vostra casa al Sole,
del vostro corpo alla Vita, della vostra anima all’Amore.
Ecco
allora che Voi iniziate ad agire, non più burattini mossi da altri con le loro
formule e ricette, ora siete Voi che agite, seguendo l’esempio di chi ci ha
liberato per sempre. Proprio questo agire è già Grazia operante, è il primo
passo della vostra trasformazione nella Luce della Verità.
La
vera comunione: l’unione dell’uomo con il Cristo, è ciò che si chiama “Grazia
Divina”; ogni anima è chiamata a diventare la sposa del Verbo.
Leggiamo
qualche parola dal Diario di Santa Faustina Kowalska: «La mia anima è simile
all’acqua limpida, in cui vedo tutto, sia la mia miseria, sia la grandezza
delle grazie di Dio e da questa conoscenza veritiera il mio spirito si rafforza
in una profonda umiltà. Espongo il mio cuore all’azione della Tua grazia, come
un cristallo ai raggi del sole, come una goccia di rugiada nel calice di un
fiore. S’imprima nel mio cuore la Tua immagine divina, e Tu che abiti nella mia
anima fa che attraverso me s’irradii la Tua divinità».
Il vero centro della vita è davanti a noi,
il Cristo è il suo centro in tutte le anime umane, così il centro cristico è
ovunque. Ciascun Figlio dell’Uomo è chiamato a divenire Figlio di Dio, poiché
ciascun uomo è un Cristo in potenza.
Pensa
a quali e quante azioni Tu sei in grado di compiere per il Bene universale, per
aiutare Te stesso, l’Uomo e tutto il Creato.
Circonda la Terra con tutto
l’Amore che hai e che aspetta di crescere e di moltiplicarsi, porgi il Tuo
capo, dai spazio all’Incontenibile; ho visto lo Spirito scendere dal Cielo come
una colomba bianca, posarsi su di Lui. Sì, quella colomba bianca che Tu hai
liberato dalla finestra, voleva liberamente posarsi sul Tuo capo, voleva e
vuole tornare a volare con Te.
Uomo, accendi la Stella che è
in Te, fai risplendere la Tua Luce interiore, alimentala con l’Amore.
Carissimi, non lasciatevi perdere i frutti del Concilio Vaticano
II, non lasciate la scienza dello spirito senza quelle 70000 perle che sono le
pagine scritte da Giovanni Paolo II, aprite il vostro cuore alla vera
conoscenza della Chiesa universale, rigettando i dogmi e i superati preconcetti
che sono chimere del passato. Questi documenti, alla luce della scienza dello
spirito, hanno immenso valore e costituiscono una solida base per il rinnovamento
della cristologia.
Giovanni Paolo II ha veramente
seguito l’esempio e le orme di Maria così da rinnovare e purificare il corpo
astrale (vergine Sofia) illuminandolo di Spirito Santo (io cosmico).
Egli ha parlato a tutta la
terra preparando gli uomini a ricevere il Cristo; Benedetto XVI prosegue la sua
opera.
Antonio BIGLIARDI
Natura, Amore e Vita
Giovanni Paolo
II
L’Amore
e la Vita sono frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il
cuore dell’uomo per mezzo della sua Grazia.
Nessuna
tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell’uomo la luce di
Dio Creatore.
Nella
profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la
sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza.
La chiamata
evangelica: «Se vuoi essere perfetto... seguimi» ci guida con la luce delle
parole del divino Maestro. Dal profondo della redenzione viene la chiamata di
Cristo, e da questa profondità essa raggiunge l'anima dell'uomo: in virtù della
grazia della redenzione tale chiamata salvifica assume, nell'anima del
chiamato, la forma concreta della professione dei consigli evangelici. In
questa forma è contenuta la vostra risposta alla chiamata dell'amore redentivo,
e questa è anche una risposta d'amore: amore di donazione, che è l'anima della
consacrazione, cioè della consacrazione della persona. Le parole di Isaia: «Ti
ho riscattato / tu mi appartieni» sembrano sigillare proprio questo amore, che
è amore totale ed esclusivo di una consacrazione a Dio.
Con
la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla
morte. Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del
peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello Spirito maligno, iniziando
dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere nella Grazia
santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il
dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio alla futura
risurrezione dei corpi. L'una e l'altra sono condizione essenziale della « vita
eterna », cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol
dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è
totalmente cancellata.
Attraverso
i secoli e le generazioni è stato costatato che nella sofferenza si nasconde
una particolare forza che avvicina interiormente l'uomo a Cristo, una
particolare grazia. Ad essa debbono la loro profonda conversione molti Santi,
come ad esempio San Francesco d'Assisi, Sant'Ignazio di Loyola, ecc. Frutto di
una tale conversione non è solo il fatto che l'uomo scopre il senso salvifico
della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo
completamente nuovo. Egli trova quasi una nuova misura di tutta la propria vita
e della propria vocazione. Questa scoperta è una particolare conferma della
grandezza spirituale che nell'uomo supera il corpo in modo del tutto
incomparabile. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile
e l'uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in
evidenza l'interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una
commovente lezione per gli uomini sani e normali.
Questa
interiore maturità e grandezza spirituale nella sofferenza certamente sono
frutto di una particolare conversione e cooperazione con la Grazia del
Redentore crocifisso. E' lui stesso ad agire nel vivo delle umane sofferenze
per mezzo del suo Spirito di verità, per mezzo dello Spirito Consolatore. E'
lui a trasformare, in un certo senso, la sostanza stessa della vita spirituale,
indicando all'uomo sofferente un posto vicino a sé. E' lui — come Maestro e
Guida interiore — ad insegnare al fratello e alla sorella sofferenti questo
mirabile scambio, posto nel cuore stesso del mistero della redenzione. La
sofferenza è, in se stessa, un provare il male. Ma Cristo ne ha fatto la più
solida base del bene definitivo, cioè del bene della salvezza eterna. Con la
sua sofferenza sulla Croce Cristo ha raggiunto le radici stesse del male: del
peccato e della morte. Egli ha vinto l'artefice del male, che è Satana, e la
sua permanente ribellione contro il Creatore. Davanti al fratello o alla
sorella sofferenti Cristo dischiude e dispiega gradualmente gli orizzonti del
Regno di Dio: di un mondo convertito al Creatore, di un mondo liberato dal peccato,
che si sta edificando sulla potenza salvifica dell'amore. E, lentamente ma
efficacemente, Cristo introduce in questo mondo, in questo Regno del Padre
l'uomo sofferente, in un certo senso attraverso il cuore stesso della sua
sofferenza. La sofferenza, infatti, non può essere trasformata e mutata con una
grazia dall'esterno, ma dall'interno. E Cristo mediante la sua propria
sofferenza salvifica si trova quanto mai dentro ad ogni sofferenza umana, e può
agire dall'interno di essa con la potenza del suo Spirito di verità, del suo
Spirito Consolatore.
Nel
corpo di Cristo, che incessantemente cresce dalla Croce del Redentore, proprio
la sofferenza, permeata dallo spirito del sacrificio di Cristo, è
l'insostituibile mediatrice ed autrice dei beni, indispensabili per la salvezza
del mondo. E' essa, più di ogni altra cosa, a fare strada alla Grazia che
trasforma le anime umane. Essa, più di ogni altra cosa, rende presenti nella
storia dell'umanità le forze della redenzione. In quella lotta « cosmica » tra
le forze spirituali del bene e del male, della quale parla la Lettera agli
Efesini, le sofferenze umane, unite con la sofferenza redentrice di Cristo,
costituiscono un particolare sostegno per le forze del bene, aprendo la strada
alla vittoria di queste forze salvifiche.
Il
Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso
in questo campo è soprattutto attivo.
Non è
male desiderare di viver meglio, ma è sbagliato lo stile di vita che si presume
esser migliore, quando è orientato all'avere e non all'essere e vuole avere di
più non per essere di più, ma per consumare l'esistenza in un godimento fine a
se stesso. È necessario, perciò, adoperarsi per costruire stili di vita, nei
quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri
uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei
consumi, dei risparmi e degli investimenti. In proposito, non posso ricordare
solo il dovere della carità, cioè il dovere di sovvenire col proprio «superfluo»
e, talvolta, anche col proprio «necessario» per dare ciò che è indispensabile
alla vita del povero. Alludo al fatto che anche la scelta di investire in un
luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto che in un
altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste certe condizioni
economiche e di stabilità politica assolutamente imprescindibili, la decisione
di investire, cioè di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare il
proprio lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e dalla
fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide.
La
vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in
quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno,
appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le
sue mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in lui
intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione è già
scritta nel «libro della vita» (cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche lì,
quando è ancora nel grembo materno, — come testimoniano numerosi testi biblici
— l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.
I
bambini, anche se ancora nel seno della madre, «sono già l'oggetto delle cure
della Provvidenza divina».
La
peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che
esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e
quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le
diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e
giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea
a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o
per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in
questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo
il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza
confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo
sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la
presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è
significativa in proposito: «La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma il
Signore dirige i suoi passi» (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della
ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita,
senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca
nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere
separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo
adeguato se stesso, il mondo e Dio.
In
voi c'è la speranza, perché voi appartenete al futuro, come il futuro
appartiene a voi. La speranza, infatti, è sempre legata al futuro, è l'attesa
dei «beni futuri». Come virtù cristiana, essa è unita all'attesa di quei beni
eterni, che Dio ha promesso all'uomo in Gesù Cristo (cfr. Rm 8,19.21; Ef 4,4; Fil
3,10s; Tm 3,7; Eb 7,19; 1Pt 1,13). E contemporaneamente questa speranza, come
virtù insieme cristiana e umana, è l'attesa dei beni che l'uomo si costruirà
utilizzando i talenti a lui dati dalla Provvidenza.
E a
voi, Fratelli e Figli nella comunione cattolica e a quanti ci sono uniti nella
fede cristiana, ripetiamo l'invito alla riflessione sulla possibilità della
pace indicando i sentieri lungo i quali tale riflessione può enormemente
approfondirsi: sono i sentieri d'una realistica conoscenza dell'antropologia
umana, nella quale le ragioni misteriose del male e del bene nella storia e nel
cuore dell'uomo ci svelano perché la pace sia un problema sempre aperto, sempre
minacciato di pessimistiche soluzioni, e insieme sempre confortato non solo dal
dovere, ma altresì dalla speranza di felici soluzioni. Noi crediamo in un
indecifrabile spesso, ma reale governo d'una Bontà infinita, che chiamiamo
Provvidenza e che sovrasta le sorti dell'umanità; noi sappiamo le strane, ma
stupende reversibilità d'ogni umana vicenda in una storia di salvezza; noi
portiamo scolpita nella memoria la settima beatitudine del Discorso della
montagna: « Beati i promotori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio »;
noi ascoltiamo, assorti in una speranza che non delude, l'annunzio natalizio di
pace per gli uomini del buon volere; noi abbiamo continuamente la pace sulle
labbra e nel cuore come dono e saluto ed augurio biblico, derivante dallo
Spirito, perché noi possediamo la fonte segreta ed inesauribile della pace, che
è «Cristo nostra pace», e se la pace esiste in Cristo e per Cristo, essa è
possibile fra gli uomini e per gli uomini.
Certo,
non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento
che « con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo
». Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri
c'è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un'opzione preferenziale
per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell'amore di Dio, la
sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora
nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita
terrena venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità
spirituali e materiali.
Lo Spirito
si manifesta in maniera particolare nella chiesa e nei suoi membri; tuttavia,
la sua presenza e azione sono universali, senza limiti né di spazio né di
tempo. Il concilio Vaticano II ricorda l'opera dello Spirito nel cuore di ogni
uomo mediante i «semi del Verbo», nelle iniziative anche religiose, negli
sforzi dell'attività umana tesi alla verità, al bene, a Dio. Lo Spirito offre
all'uomo «luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione»; mediante lo
Spirito «l'uomo può arrivare nella fede a contemplare e gustare il mistero del
piano divino»; anzi, «dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la
possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero
pasquale». In ogni caso la chiesa sa che l'uomo, «sollecitato incessantemente
dallo Spirito di Dio, non potrà mai essere del tutto indifferente al problema
della religione», e «avrà sempre desiderio di sapere almeno confusamente, quale
sia il significato della sua vita, della sua attività e della sua morte». Lo
Spirito, dunque è all'origine stessa della domanda esistenziale e religiosa
dell'uomo la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti ma dalla
struttura stessa del suo essere. La presenza e l'attività dello Spirito non
toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le
religioni. Lo Spirito, infatti, sta all'origine dei nobili ideali e delle
iniziative di bene dell'umanità in cammino: «Con mirabile provvidenza egli
dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra». Il Cristo risorto
«opera nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, non solo suscitando
il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e
fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini
cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine
tutta la terra». È ancora lo Spirito che sparge i «semi del Verbo», presenti
nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo.
L'Eucaristia
è un tesoro inestimabile: non solo il celebrarla, ma anche il sostare davanti
ad essa fuori della Messa consente di attingere alla sorgente stessa della
grazia. Una comunità cristiana che voglia essere più capace di contemplare il
volto di Cristo, nello spirito che ho suggerito nelle Lettere apostoliche Novo
millennio ineunte e Rosarium Virginis Mariae, non può non sviluppare anche
questo aspetto del culto eucaristico, nel quale si prolungano e si moltiplicano
i frutti della comunione al corpo e al sangue del Signore.
Il
fedele, ascoltando la parola di Dio, è portato a capire il corso delle vicende
e dei tempi che il Signore nella sua provvidenza ha disposto per l'umana
famiglia, così che all'anima credente viene offerta una più ampia visione del
più disegno divino di salvezza. In questa visione di fede giungiamo anche a
percepire le opere mirabili di Dio con occhi aperti e «con orecchie
attentissime» (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 9). La luce divinizzante
della contemplazione eccita la fiamma, e sia il silenzio, congiunto con lo
stupore, sia i canti di esultazione, sia l'alacre azione di grazia, donano a
quella orazione un'indole particolare, mediante la quale i monaci celebrano
cantando le lodi del Signore ogni giorno. Allora la preghiera diventa quasi la
voce dell'intera creazione e in qualche modo anticipa l'eccelso canto della
celeste Gerusalemme. La parola di Dio in questo pellegrinaggio terreno, ci fa
sentire tutta la vita come aperta allo sguardo di colui che dall'alto vede ogni
cosa. Così la preghiera rivolta al Padre, dà voce a quelli che ormai non hanno
più voce; e in essa in qualche modo risuonano le gioie e le ansie, gli esiti
favorevoli e le speranze deluse, e l'attesa di tempi migliori.
Non
tutto è negativo nel mondo contemporaneo, e non potrebbe essere altrimenti,
perché la Provvidenza del Padre celeste vigila con amore perfino sulle nostre
preoccupazioni quotidiane (Mt6,25); (Mt10,23); (Lc12,6); (Lc22,1); anzi i
valori positivi, che abbiamo rilevato, attestano una nuova preoccupazione
morale soprattutto in ordine ai grandi problemi umani, quali sono lo sviluppo e
la pace.
Se
nella sua Provvidenza Dio aveva donato la terra agli uomini, ciò stava a
significare che l'aveva donata a tutti. Perciò le ricchezze della creazione
erano da considerarsi come un bene comune dell'intera umanità. Chi possedeva
questi beni come sua proprietà, ne era in verità soltanto un amministratore,
cioè un ministro tenuto ad operare in nome di Dio, unico proprietario in senso
pieno, essendo volontà di Dio che i beni creati servissero a tutti in modo
giusto.
Sono
soprattutto coloro che soffrono a sentirsi attratti dalla prospettiva del
"ristoro" che il Medico divino è in grado di offrire a chi si rivolge
a Lui con fiducia. E a Fatima questo ristoro si trova: è a volte ristoro
fisico, quando nella sua provvidenza Dio concede la guarigione dalla malattia;
è più spesso ristoro spirituale, quando l'anima, pervasa dalla luce interiore
della grazia, trova la forza di accettare il peso doloroso dell'infermità
trasformandolo, mediante la comunione con Cristo, servo sofferente, in
strumento di redenzione e di salvezza per sé e per i fratelli.
La
via da seguire, in questo difficile cammino, ci viene indicata dalla voce
materna di Maria che, sempre, nella storia e nella vita della Chiesa, ma in
modo particolare nel nostro tempo, continua a ripetere le parole: "Fate
quello che vi dirà".
Maria
è un veicolo eccellente e unico della redenzione di Cristo: è un canale
privilegiatissimo della sua grazia, una via di elezione per mezzo della quale
la grazia giunge agli uomini con un’abbondanza straordinaria e meravigliosa.
Dovunque è presente Maria, lì la grazia abbonda, e lì avviene la guarigione
dell’uomo: guarigione nel corpo e nello spirito.
Nel
giorno del 13 maggio 1981, il giorno dell'attentato al Papa durante l'udienza
generale in Piazza San Pietro, la Divina Provvidenza mi ha salvato in modo
miracoloso dalla morte. Colui che è unico Signore della vita e della morte Lui
stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l'ha donata di nuovo.
Da questo momento essa ancora di più appartiene a Lui. Spero che Egli mi
aiuterà a riconoscere fino a quando devo continuare questo servizio, al quale
mi ha chiamato nel giorno 16 ottobre 1978. Gli chiedo di volermi richiamare
quando Egli stesso vorrà. «Nella vita e nella morte apparteniamo al Signore...
siamo del Signore» (cfr Rm 14, 8). Spero anche che fino a quando mi sarà donato
di compiere il servizio Petrino nella Chiesa, la Misericordia di Dio voglia
prestarmi le forze necessarie per questo servizio.
L'ultimo
decennio del secolo passato è stato libero dalle precedenti tensioni; ciò non
significa che non abbia portato con sé nuovi problemi e difficoltà. In modo
particolare sia lode alla Provvidenza Divina per questo, che il periodo della
così detta «guerra fredda» è finito senza il violento conflitto nucleare, di
cui pesava sul mondo il pericolo nel periodo precedente.
La
Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge
tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa
che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della
salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così
scrive: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa,
e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si
sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il
dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna». Ed aggiunge:
«Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che
senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita
di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta.
Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla
Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni
uomo, affinché abbia finalmente la Vita».
La
vera autonomia morale dell'uomo non significa affatto il rifiuto, bensì
l'accoglienza della legge morale, del comando di Dio: «Il Signore Dio diede
questo comando all'uomo...» (Gn 2,16). La libertà dell'uomo e la legge di Dio
s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel senso della libera
obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita benevolenza di Dio all'uomo. E
pertanto l'obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un'eteronomia, come se
la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un'onnipotenza assoluta,
esterna all'uomo e contraria all'affermazione della sua libertà. In realtà, se
eteronomia della morale significasse negazione dell'autodeterminazione
dell'uomo o imposizione di norme estranee al suo bene, essa sarebbe in
contraddizione con la rivelazione dell'Alleanza e dell'Incarnazione redentrice.
Una simile eteronomia non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla
sapienza divina ed alla dignità della persona umana.
Perché,
dunque, si attui la giustizia ed abbiano successo i tentativi degli uomini per
realizzarla, è necessario il dono della grazia, che viene da Dio. Per mezzo di
essa, in collaborazione con la libertà degli uomini, si ottiene quella
misteriosa presenza di Dio nella storia che è la Provvidenza.
Mediante
il Rosario il credente attinge abbondanza di grazia, quasi ricevendola dalle
mani stesse della Madre del Redentore.
Il
Rosario, se riscoperto nel suo pieno significato, porta al cuore stesso della
vita cristiana ed offre un'ordinaria quanto feconda opportunità spirituale e
pedagogica per la contemplazione personale, la formazione del Popolo di Dio e
la nuova evangelizzazione. Mi piace ribadirlo anche nel ricordo gioioso di un
altro anniversario: i 40 anni dall'inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II
(11 ottobre 1962), la « grande grazia » predisposta dallo spirito di Dio per la
Chiesa del nostro tempo.
Il
contemplare di Maria è innanzitutto un ricordare. Occorre tuttavia
intendere questa parola nel senso biblico della memoria (zakar), che
attualizza le opere compiute da Dio nella storia della salvezza. La Bibbia è
narrazione di eventi salvifici, che hanno il loro culmine in Cristo stesso.
Questi eventi non sono soltanto un 'ieri'; sono anche l''oggi' della
salvezza. Questa attualizzazione si realizza in particolare nella Liturgia:
ciò che Dio ha compiuto secoli or sono non riguarda soltanto i testimoni
diretti degli eventi, ma raggiunge con il suo dono di grazia l'uomo di ogni
tempo. Ciò vale, in certo modo, anche di ogni altro devoto approccio a quegli
eventi: « farne memoria », in atteggiamento di fede e di amore, significa
aprirsi alla grazia che Cristo ci ha ottenuto con i suoi misteri di vita, morte
e risurrezione.
Maria
viene definitivamente introdotta nel mistero di Cristo mediante questo evento:
l'annunciazione dell'angelo. Esso si verifica a Nazareth, in precise
circostanze della storia d'Israele, il popolo primo destinatario delle promesse
di Dio. Il messaggero divino dice alla Vergine: «Ti saluto, o piena di grazia,
il Signore è con te» (Lc 1,28). Maria «rimase turbata e si domandava che
senso avesse un tale saluto» (Lc 1,29): che cosa significassero quelle
straordinarie parole e, in particolare, l'espressione «piena di grazia»
(kecharitoméne). Se vogliamo meditare insieme a Maria su queste parole e,
specialmente, sull'espressione «piena di grazia», possiamo trovare un
significativo riscontro proprio nel passo sopra citato della Lettera agli
Efesini. E se dopo l'annuncio del celeste messaggero la Vergine di Nazareth è
anche chiamata «la benedetta fra le donne» (Lc 1,42), ciò si spiega a
causa di quella benedizione di cui «Dio Padre» ci ha colmati «nei cieli, in
Cristo». È una benedizione spirituale, che si riferisce a tutti gli uomini e
porta in sé la pienezza e l'universalità («ogni benedizione»), quale scaturisce
dall'amore che, nello Spirito Santo, unisce al Padre il Figlio consostanziale.
Nello stesso tempo, è una benedizione riversata per opera di Gesù Cristo nella
storia umana sino alla fine: su tutti gli uomini. A Maria, però, questa
benedizione si riferisce in misura speciale ed eccezionale: è stata, infatti,
salutata da Elisabetta come «la benedetta fra le donne». La ragione del duplice
saluto, dunque, è che nell'anima di questa «figlia di Sion» si è manifestata,
in un certo senso, tutta la «gloria della grazia», quella che «il Padre... ci
ha dato nel suo Figlio diletto». Il messaggero saluta, infatti, Maria come
«piena di grazia»: la chiama così, come se fosse questo il suo vero nome. Non
chiama la sua interlocutrice col nome che le è proprio all'anagrafe terrena:
Miryam (= Maria), ma con questo nome nuovo: «piena di grazia». Che cosa
significa questo nome? Perché l'arcangelo chiama così la Vergine di Nazareth?
Nel linguaggio della Bibbia «grazia» significa un dono speciale, che secondo il
Nuovo Testamento ha la sua sorgente nella vita trinitaria di Dio stesso, di Dio
che è amore (1 Gv 4,8). Frutto di questo amore è l'elezione--quella di
cui parla la Lettera agli Efesini. Da parte di Dio questa elezione è l'eterna
volontà di salvare l'uomo mediante la partecipazione alla sua stessa vita (2 Pt
1,4) in Cristo: è la salvezza nella partecipazione alla vita soprannaturale.
L'effetto di questo dono eterno, di questa grazia dell'elezione dell'uomo da
parte di Dio è come un germe di santità, o come una sorgente che zampilla
nell'anima come dono di Dio stesso, che mediante la grazia vivifica e santifica
gli eletti. In questo modo si compie, cioè diventa realtà, quella benedizione
dell'uomo «con ogni benedizione spirituale», quell'«essere suoi figli
adottivi... in Cristo», ossia in colui che è eternamente il «Figlio diletto»
del Padre. Quando leggiamo che il messaggero dice a Maria «piena di grazia», il
contesto evangelico, in cui confluiscono rivelazioni e promesse antiche, ci
lascia capire che qui si tratta di una benedizione singolare tra tutte le
«benedizioni spirituali in Cristo». Nel mistero di Cristo ella è presente già
«prima della creazione del mondo», come colei che il Padre «ha scelto» come
Madre del suo Figlio nell'incarnazione ed insieme al Padre l'ha scelta il
Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità. Maria è in modo del
tutto speciale ed eccezionale unita a Cristo, e parimenti è amata in questo
Figlio diletto eternamente, in questo Figlio consostanziale al Padre, nel quale
si concentra tutta «la gloria della grazia». Nello stesso tempo, ella è e
rimane aperta perfettamente verso questo «dono dall'alto» (Gc 1,17).
Come insegna il Concilio, Maria «primeggia tra gli umili e i poveri del
Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza».
Quando
«venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna». Con
queste parole della Lettera ai Galati (4, 4) l'apostolo Paolo unisce tra loro i
momenti principali che determinano in modo essenziale il compimento del mistero
«prestabilito in Dio» (cf. Ef 1, 9). Il Figlio, Verbo consostanziale al Padre,
nasce come uomo da una donna, quando viene «la pienezza del tempo». Questo
avvenimento conduce al punto chiave della storia dell'uomo sulla terra, intesa
come storia della salvezza. E' significativo che l'apostolo non chiami la Madre
di Cristo col nome proprio di «Maria», ma la definisca «donna»: ciò stabilisce
una concordanza con le parole del Protovangelo nel Libro della Genesi (cf. 3,
15). Proprio quella «donna» è presente nell'evento centrale salvifico, che
decide della «pienezza del tempo»: questo evento si realizza in lei e per mezzo
di lei.
Così
inizia l'evento centrale, l'evento chiave nella storia della salvezza, la
Pasqua del Signore.
Tuttavia,
vale forse la pena di riconsiderarlo a partire dalla storia spirituale
dell'uomo intesa nel modo più ampio, così come si esprime attraverso le diverse
religioni del mondo. Appelliamoci qui alle parole del Concilio Vaticano II «Gli
uomini si attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della
condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano: che
cosa sia l'uomo, quale sia il senso e il fine della nostra vita, che cosa siano
il bene e il peccato, quale origine e fine abbia il dolore, quale sia la via
per raggiungere la vera felicità, che cosa siano la morte, il giudizio e la
sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la
nostra esistenza, dal quale traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo».
«Dai tempi più antichi fino ad oggi, presso i vari popoli si trova una certa
percezione di quella forza arcana che è presente nel corso delle cose e negli
avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si ha riconoscimento della
suprema Divinità o anche del Padre».
Sullo
sfondo di questo vasto panorama, che pone in evidenza le aspirazioni dello
spirito umano in cerca di Dio _ a volte quasi «andando come a tentoni» (cf. At
17, 27) _, la «pienezza del tempo», di cui parla Paolo nella sua Lettera, mette
in rilievo la risposta di Dio stesso, di colui «in cui viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo» (cf. At 17, 28). E' questi il Dio che «aveva già parlato nei tempi antichi
molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, e ultimamente ha
parlato a noi per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1-2). L'invio di questo Figlio,
consostanziale al Padre, come uomo «nato da donna», costituisce il culminante e
definitivo punto dell'autorivelazione di Dio all'umanità. Questa
autorivelazione possiede un carattere salvifico, come insegna in un altro passo
il Concilio Vaticano II: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se
stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cf. Ef 1, 9), mediante il
quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo
hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cf. Ef 2, 18;
2 Pt 1, 4)».
La
donna si trova al cuore di questo evento salvifico. L'autorivelazione di Dio,
che è l'imperscrutabile unità della Trinità, è contenuta nelle sue linee
fondamentali nell'annunciazione di Nazareth. «Ecco, concepirai un figlio, lo
darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo».
«Come avverrà questo? Non conosco uomo». «Lo Spirito Santo scenderà su di te,
su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà
sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio (...). Nulla è impossibile a Dio»
(cf. Lc 1, 31-37).
E'
facile pensare a questo evento nella prospettiva della storia d'Israele, il
popolo eletto di cui Maria è figlia; ma è facile anche pensarvi nella
prospettiva di tutte quelle vie, lungo le quali l'umanità da sempre cerca
risposta agli interrogativi fondamentali ed insieme definitivi che più
l'assillano. Non si trova forse nell'annunciazione di Nazareth l'inizio di
quella risposta definitiva, mediante la quale Dio stesso viene incontro alle
inquietudini del cuore dell'uomo? Qui non si tratta solo di parole di Dio
rivelate per mezzo dei Profeti, ma, con questa risposta, realmente «il Verbo si
fa carne» (cf. Gv 1, 14). Maria raggiunge così un'unione con Dio tale da
superare tutte le attese dello spirito umano. Supera persino le attese di tutto
Israele e, in particolare, delle figlie di questo popolo eletto, le quali, in
base alla promessa, potevano sperare che una di esse sarebbe un giorno divenuta
madre del Messia. Chi di loro, tuttavia, poteva supporre che il Messia promesso
sarebbe stato il «Figlio dell'Altissimo»? A partire dalla fede monoteista
veterotestamentaria ciò era difficilmente ipotizzabile. Solamente in forza
dello Spirito Santo, che «stese la sua ombra» su di lei, Maria poteva accettare
ciò che è «impossibile presso gli uomini, ma possibile presso Dio» (cf. Mc 10,
27).
In
tal modo «la pienezza del tempo» manifesta la straordinaria dignità della
«donna». Questa dignità consiste, da una parte, nell'elevazione soprannaturale
all'unione con Dio in Gesù Cristo, che determina la profondissima finalità
dell'esistenza di ogni uomo sia sulla terra che nell'eternità. Da questo punto
di vista, la «donna» è la rappresentante e l'archetipo di tutto il genere
umano: rappresenta l'umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia
uomini che donne. D'altra parte, però, l'evento di Nazareth mette in rilievo
una forma di unione col Dio vivo, che può appartenere solo alla «donna», Maria:
l'unione tra madre e figlio. La Vergine di Nazareth diventa, infatti, la Madre
di Dio.
Questa
verità, accolta sin dall'inizio dalla fede cristiana, ebbe solenne formulazione
nel Concilio di Efeso (a. 431). Contrapponendosi all'opinione di Nestorio, che
riteneva Maria esclusivamente madre di Gesù-uomo, questo Concilio mise in
rilievo l'essenziale significato della maternità di Maria Vergine. Al momento
dell'annunciazione, rispondendo col suo «fiat», Maria concepì un uomo che era
Figlio di Dio, consostanziale al Padre. Dunque, è veramente la Madre di Dio,
poiché la maternità riguarda tutta la persona, e non solo il corpo, e neppure
solo la «natura» umana. In questo modo il nome «Theotókos» _ Madre di Dio _
divenne il nome proprio dell'unione con Dio, concessa a Maria Vergine.
La
particolare unione della «Theotókos» con Dio, che realizza nel modo più
eminente la predestinazione soprannaturale all'unione col Padre elargita ad
ogni uomo (filii in Filio), è pura grazia e, come tale, un dono dello Spirito.
Nello stesso tempo, però, mediante la risposta di fede Maria esprime la sua
libera volontà, e dunque la piena partecipazione dell'«io» personale e
femminile all'evento dell'incarnazione. Col suo «fiat», Maria diviene
l'autentico soggetto di quell'unione con Dio, che si è realizzata nel mistero
dell'incarnazione del Verbo consostanziale al Padre. Tutta l'azione di Dio
nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà dell'«io» umano. Lo
stesso avviene nell'annunciazione a Nazareth.
Questo
evento possiede un chiaro carattere interpersonale: è un dialogo. Non lo
comprendiamo pienamente se non inquadriamo tutta la conversazione tra l'Angelo
e Maria nel saluto: «piena di grazia». L'intero dialogo dell'annunciazione
rivela l'essenziale dimensione dell'evento: la dimensione soprannaturale
(kecaritoméne).
Ma la
grazia non mette mai da parte la natura né la annulla, anzi la perfeziona e
nobilita. Pertanto, quella «pienezza di grazia», concessa alla Vergine di
Nazareth, in vista del suo divenire «Theotókos», significa allo stesso tempo la
pienezza della perfezione di ciò «che è caratteristico della donna», di «ciò
che è femminile». Ci troviamo qui, in un certo senso, al punto culminante,
all'archetipo della personale dignità della donna.
Quando
Maria risponde alle parole del celeste messaggero col suo «fiat», la «piena di
grazia» sente il bisogno di esprimere il suo personale rapporto riguardo al
dono che le è stato rivelato, dicendo: «Eccomi, sono la serva del Signore» (Lc
1, 38). Questa frase non può essere privata né sminuita del suo senso profondo,
estraendola artificialmente da tutto il contesto dell'evento e da tutto il
contenuto della verità rivelata su Dio e sull'uomo. Nell'espressione «serva del
Signore» si fa sentire tutta la consapevolezza di Maria di essere creatura in
rapporto a Dio. Tuttavia, la parola «serva», verso la fine del dialogo
dell'annunciazione, si inscrive nell'intera prospettiva della storia della
Madre e del Figlio. Difatti, questo Figlio, che è vero e consostanziale «Figlio
dell'Altissimo», dirà molte volte di sé, specialmente nel momento culminante
della sua missione: «Il Figlio dell'uomo (...) non è venuto per essere servito,
ma per servire» (Mc 10, 45).
Cristo
porta sempre in sé la coscienza di essere «servo del Signore», secondo la
profezia di Isaia (cf. 42, 1; 49, 3. 6; 52, 13), in cui è racchiuso il
contenuto essenziale della sua missione messianica: la consapevolezza di essere
il Redentore del mondo. Maria sin dal primo momento della sua maternità divina,
della sua unione col Figlio che «il Padre ha mandato nel mondo, perché il mondo
si salvi per mezzo di lui» (cf. Gv 3, 17), si inserisce nel servizio messianico
di Cristo. E' proprio questo servizio a costituire il fondamento stesso di quel
Regno, in cui «servire (...) vuol dire regnare». Cristo, «servo del Signore»,
manifesterà a tutti gli uomini la dignità regale del servizio, con la quale è
strettamente collegata la vocazione d'ogni uomo.
Così,
considerando la realtà donna-Madre di Dio, entriamo nel modo più opportuno
nella presente meditazione dell'Anno Mariano. Tale realtà determina anche
l'essenziale orizzonte della riflessione sulla dignità e sulla vocazione
della donna. Nel pensare, dire o fare qualcosa in ordine alla dignità e
alla vocazione della donna non si devono distaccare il pensiero, il cuore e le
opere da questo orizzonte. La dignità di ogni uomo e la vocazione ad essa
corrispondente trovano la loro misura definitiva nell'unione con Dio. Maria
_ la donna della Bibbia _ è la più compiuta espressione di questa dignità e di
questa vocazione. Infatti, ogni uomo, maschio o femmina, creato a immagine e
somiglianza di Dio, non può realizzarsi al di fuori della dimensione di questa
immagine e somiglianza.
La
Sposa brillerà dinanzi agli occhi del mondo di quella bellezza e santità che
provengono dalla grazia del Signore. Da duemila anni, la Chiesa è la culla in
cui Maria depone Gesù e lo affida all'adorazione e alla contemplazione di tutti
i popoli. Che attraverso l'umiltà della Sposa possa risplendere ancora di più
la gloria e la forza dell'Eucaristia, che essa celebra e conserva nel suo seno.
Nel segno del Pane e del Vino consacrati, Cristo Gesù risorto e glorificato,
luce delle genti (cfr Lc 2, 32), rivela la continuità della sua Incarnazione.
Egli rimane vivo e vero in mezzo a noi per nutrire i credenti con il suo Corpo
e il suo Sangue.
Lo sguardo, pertanto, sia fisso sul futuro. Il Padre misericordioso
non tiene conto dei peccati dei quali ci siamo veramente pentiti (cfr Is
38, 17). Egli, ora, compie una cosa nuova e nell'amore che perdona anticipa i
cieli nuovi e la terra nuova. Si rinfranchi, dunque, la fede, cresca la
speranza, diventi sempre più operosa la carità, in vista di un rinnovato
impegno di testimonianza cristiana nel mondo del nuovo millennio.
Alcuni
parlano, a giusto titolo, di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la
libera obbedienza dell'uomo alla legge di Dio implica effettivamente la
partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla
provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo di mangiare «dell'albero della
conoscenza del bene e del male», Dio afferma che l'uomo non possiede
originariamente in proprio questa «conoscenza», ma solamente vi partecipa
mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli
manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza eterna. La legge quindi
deve dirsi un'espressione della sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la
libertà si sottomette alla verità della creazione. Per questo occorre
riconoscere nella libertà della persona umana l'immagine e la vicinanza di Dio,
che è «presente in tutti» (cf Ef 4,6); allo stesso modo, bisogna confessare la
maestà del Dio dell'universo e venerare la santità della legge di Dio
infinitamente trascendente. Deus semper maior.
La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità.
Ci accompagna in questo cammino la Vergine Santissima, alla quale, qualche mese fa, insieme con tanti Vescovi convenuti a Roma da tutte le parti del mondo, ho affidato il terzo millennio. Tante volte in questi anni l'ho presentata e invocata come « Stella della nuova evangelizzazione ». La addito ancora, come aurora luminosa e guida sicura del nostro cammino. «Donna, ecco i tuoi figli», le ripeto, riecheggiando la voce stessa di Gesù (cfr Gv 19,26), e facendomi voce, presso di Lei, dell'affetto filiale di tutta la Chiesa.
La circostanza che ora mi spinge a riprendere questo argomento è la prospettiva dell'anno Duemila ormai vicino, nel quale il Giubileo bimillenario della nascita di Gesù Cristo orienta al tempo stesso il nostro sguardo verso la sua madre. In anni recenti si sono levate varie voci per prospettare l'opportunità di far precedere tale ricorrenza da un analogo Giubileo, dedicato alla celebrazione della nascita di Maria. In realtà, se non è possibile stabilire un preciso punto cronologico per fissare la data della nascita di Maria, è costante da parte della Chiesa la consapevolezza che Maria è apparsa prima di Cristo sull'orizzonte della storia della salvezza. È un fatto che, mentre si avvicinava definitivamente la «pienezza del tempo», cioè l'avvento salvifico dell'Emanuele, colei che dall'eternità era destinata ad esser sua madre esisteva già sulla terra. Questo suo «precedere» la venuta di Cristo trova ogni anno un riflesso nella liturgia dell'Avvento. Se dunque gli anni che ci avvicinano alla conclusione del secondo Millennio dopo Cristo e all'inizio del terzo, vengono rapportati a quell'antica attesa storica del Salvatore, diventa pienamente comprensibile che in questo periodo desideriamo rivolgerci in modo speciale a colei, che nella «notte» dell'attesa dell'Avvento cominciò a splendere come una vera «stella del mattino». Infatti, come questa stella insieme con l'«aurora» precede il sorgere del sole, cosi Maria fin dalla sua concezione immacolata ha preceduto la venuta del Salvatore, il sorgere del «sole di giustizia» nella storia del genere umano. La sua presenza in mezzo a Israele - così discreta da passare quasi inosservata agli occhi dei contemporanei - splendeva ben palese davanti all'Eterno, il quale aveva associato questa nascosta «figlia di Sion» (Sof 3,14); (Zc 2,14) al piano salvifico comprendente tutta la storia dell'umanità. A ragione dunque, al termine di questo Millennio, noi cristiani, che sappiamo come il piano provvidenziale della Santissima Trinità sia la realtà centrale della rivelazione e della fede, sentiamo il bisogno di mettere in rilievo la singolare presenza della Madre di Cristo nella storia, specialmente durante questi anni…
Affido questo impegno di tutta la Chiesa alla celeste intercessione di Maria, Madre del Redentore. Ella, la Madre del bell'amore, sarà per i cristiani incamminati verso il grande Giubileo del terzo millennio la Stella che ne guida con sicurezza i passi incontro al Signore. L'umile Fanciulla di Nazaret, che duemila anni fa offerse al mondo il Verbo incarnato, orienti l'umanità del nuovo millennio verso Colui che è « la luce vera, quella che illumina ogni uomo » (Gv 1, 9).
“Ed ecco la stella … li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo in cui si trovava il bambino” (Mt 2,9). I Magi arrivarono a Betlemme perché si lasciarono docilmente guidare dalla stella. Anzi, “al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia” (Mt 2,10). E’ importante, carissimi, imparare a scrutare i segni con i quali Dio ci chiama e ci guida. Quando si è consapevoli di essere da Lui condotti, il cuore sperimenta una gioia autentica e profonda, che si accompagna ad un vivo desiderio di incontrarlo e ad uno sforzo perseverante per seguirlo docilmente.
Oh,
inscrutabile è il disegno della divina Provvidenza!.
Benedetto XVI
Sorprendendo
ogni mia previsione, la Provvidenza divina, attraverso il voto dei venerati
Padri Cardinali, mi ha chiamato a succedere a questo grande Papa. Ripenso in
queste ore a quanto avvenne nella regione di Cesarea di Filippo, duemila anni
or sono. Mi pare di udire le parole di Pietro: "Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente", e la solenne affermazione del Signore: "Tu
sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa… A te darò le chiavi del
regno dei cieli" (Mt 16, 15-19).
Tu sei il Cristo! Tu sei Pietro! Mi sembra di rivivere la stessa scena evangelica; io, Successore di Pietro, ripeto con trepidazione le parole trepidanti del pescatore di Galilea e riascolto con intima emozione la rassicurante promessa del divino Maestro. Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui posso contare: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16,18). Scegliendomi quale Vescovo di Roma, il Signore mi ha voluto suo Vicario, mi ha voluto "pietra" su cui tutti possano poggiare con sicurezza. Chiedo a Lui di supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso e fedele Pastore del suo gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo Spirito.
Mi
accingo a intraprendere questo peculiare ministero, il ministero ‘petrino’ al
servizio della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della
Provvidenza di Dio. E’ in primo luogo a Cristo che rinnovo la mia totale e
fiduciosa adesione: "In Te, Domine, speravi; non confundar in
aeternum!".
Alla Vergine Madre di Dio, che ha accompagnato con la sua silenziosa presenza i passi della Chiesa nascente e ha confortato la fede degli Apostoli, affido tutti noi e le attese, le speranze e le preoccupazioni dell’intera comunità dei cristiani. Sotto la materna protezione di Maria, Mater Ecclesiae, vi invito a camminare docili e obbedienti alla voce del suo divin Figlio e nostro Signore Gesù Cristo. Invocandone il costante patrocinio, imparto di cuore la Benedizione Apostolica a ognuno di voi e a quanti la Provvidenza divina affida alle vostre cure pastorali.
Carissimi
giovani, sono lieto di incontrarvi qui a
Colonia sulle rive del Reno! Siete giunti da varie parti della Germania,
dell’Europa, del mondo, facendovi pellegrini al seguito dei Magi. Seguendo le
loro orme voi volete scoprire Gesù. Avete accettato di mettervi in cammino per
giungere anche voi a contemplare in modo personale e insieme comunitario,
il volto di Dio svelato nel bambino del Presepio. Come voi, mi sono messo
anch’io in cammino per giungere insieme con voi ad inginocchiarmi davanti alla
bianca Ostia consacrata nella quale gli occhi della fede riconoscono la
presenza reale del Salvatore del mondo. Insieme, continueremo a meditare sul
tema di questa Giornata Mondiale della Gioventù: “Siamo venuti per adorarlo”
(Mt 2,2).
Con
immensa gioia vi saluto e vi accolgo, cari giovani, qui venuti da vicino o da
lontano, camminando sulle strade del mondo e su quelle della vostra vita. Un
particolare saluto rivolgo a quanti sono venuti dall’“Oriente”, come i Magi.
Voi siete i rappresentanti delle innumerevoli folle di nostri fratelli e
sorelle in umanità, che aspettano senza saperlo il sorgere della stella nei
loro cieli per essere condotti a Cristo, Luce delle Genti, e per trovare in Lui
la risposta appagante per la sete dei loro cuori. Saluto con affetto
anche quanti tra voi non sono battezzati, quanti non conoscono ancora Cristo o
non si riconoscono nella Chiesa. Proprio a voi il Papa Giovanni Paolo II ha
rivolto un particolare invito a questo incontro; vi ringrazio di aver deciso di
venire a Colonia. Qualcuno tra voi potrebbe forse far propria la descrizione
che Edith Stein faceva della propria adolescenza, lei che visse poi nel Carmelo
di Colonia: “Avevo coscientemente e deliberatamente perso l’abitudine di
pregare”. Durante queste giornate, potrete rifare l’esperienza toccante della
preghiera come dialogo con Dio, da cui ci sappiamo amati e che vogliamo amare a
nostra volta.
A
tutti vorrei dire con insistenza: spalancate il vostro cuore a Dio, lasciatevi
sorprendere da Cristo! Concedetegli il “diritto di parlarvi” durante questi
giorni! Aprite le porte della vostra libertà al suo amore misericordioso!
Esponete le vostre gioie e le vostre pene a Cristo, lasciando che Egli illumini
con la sua luce la vostra mente e tocchi con la sua grazia il vostro cuore. In
questi giorni benedetti di condivisione e di gioia, fate l’esperienza
liberatrice della Chiesa come luogo della misericordia e della tenerezza di Dio
verso gli uomini. Nella Chiesa e mediante la Chiesa raggiungerete Cristo che vi
aspetta.
Arrivando oggi a
Colonia per partecipare con voi alla XX Giornata Mondiale della Gioventù, mi è
spontaneo ricordare con emozione e riconoscenza il Servo di Dio tanto amato da
tutti noi Giovanni Paolo II, che ebbe l’idea luminosa di chiamare a raccolta i
giovani del mondo intero per celebrare insieme Cristo, unico Redentore del
genere umano. Grazie al dialogo profondo che si è sviluppato nel corso di oltre
vent’anni tra il Papa e i giovani, molti di loro hanno potuto approfondire la
fede, stringere legami di comunione, appassionarsi alla Buona Novella della
salvezza in Cristo e proclamarla in tante parti della terra. Questo grande Papa
ha saputo capire le sfide che si presentano ai giovani di oggi e, confermando
la sua fiducia in loro, non ha esitato ad incitarli ad essere coraggiosi
annunciatori del Vangelo e intrepidi costruttori della civiltà della verità,
dell’amore e della pace.
Oggi tocca a me
raccogliere questa straordinaria eredità spirituale che Papa Giovanni Paolo II
ci ha lasciato. Lui vi ha amati, voi l’avete capito e lo avete ricambiato con
lo slancio della vostra età. Ora tutti insieme abbiamo il compito di metterne
in pratica gli insegnamenti. Con questo impegno siamo qui a Colonia, pellegrini
sulle orme dei Magi. Secondo la tradizione, i loro nomi in lingua greca erano
Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Nel suo Vangelo, Matteo riporta la domanda
che ardeva nel cuore dei Magi: “Dov’è il Re dei Giudei che è nato?” (Mt
2,2). La ricerca di Lui era il motivo per cui avevano affrontato il lungo
viaggio fino a Gerusalemme. Per questo avevano sopportato fatiche e privazioni
senza cedere allo scoraggiamento e alla tentazione di ritornare sui loro passi.
Ora che erano vicini alla meta, non avevano da porre altra domanda che questa.
Anche noi siamo venuti a Colonia perché sentivamo urgere nel cuore, sebbene in
forma diversa, la stessa domanda che spingeva gli uomini dall’Oriente a
mettersi in cammino. E’ vero che noi oggi non cerchiamo più un re; ma siamo
preoccupati per la condizione del mondo e domandiamo: Dove trovo i criteri per
la mia vita, dove i criteri per collaborare in modo responsabile
all’edificazione del presente e del futuro del nostro mondo? Di chi posso
fidarmi – a chi affidarmi? Dov’è Colui che può offrirmi la risposta appagante
per le attese del cuore? Porre simili domande significa innanzi tutto
riconoscere che il cammino non è concluso fino a quando non si è incontrato
Colui che ha il potere di instaurare quel Regno universale di giustizia e di
pace a cui gli uomini aspirano, ma che non sanno costruire da soli. Porre tali
domande significa poi cercare Qualcuno che non si inganna e non può ingannare
ed è perciò in grado di offrire una certezza così salda da consentire di vivere
per essa e, nel caso, anche di morire.
Quando all’orizzonte
dell’esistenza tale risposta si profila bisogna, cari amici, saper fare le
scelte necessarie. E’ come quando ci si trova ad un bivio: quale strada
prendere? Quella suggerita dalle passioni o quella indicata dalla stella che
brilla nella coscienza? I Magi, udita la risposta: “A Betlemme di Giudea,
perché così è scritto per mezzo del profeta” (Mt 2,5), scelsero di
continuare la strada e di andare fino in fondo, illuminati da questa parola. Da
Gerusalemme andarono a Betlemme, ossia dalla parola che indicava loro dov’era
il Re dei Giudei che stavano cercando fino all’incontro con quel Re che era al
contempo l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Quella parola è detta
anche per noi. Anche noi dobbiamo fare la nostra scelta. In realtà, a ben
pensare, è proprio questa l’esperienza che facciamo nella partecipazione ad
ogni Eucaristia. In ogni Messa, infatti, l’incontro con la Parola di Dio ci
introduce alla partecipazione al mistero della croce e risurrezione di Cristo e
così ci introduce alla Mensa eucaristica, all’unione con Cristo. Sull’altare è
presente Colui che i Magi videro steso sulla paglia: Cristo, il Pane vivo
disceso dal cielo per dare la vita al mondo, il vero Agnello che dà la propria
vita per la salvezza dell’umanità. Illuminati dalla Parola, è sempre a Betlemme
- la “Casa del pane” - che potremo fare l’incontro sconvolgente con
l’inconcepibile grandezza di un Dio che si è abbassato fino al punto di
mostrarsi nella mangiatoia, di darsi come cibo sull’altare.
Possiamo immaginare
lo stupore dei Magi davanti al Bambino in fasce! Solo la fede permise loro di
riconoscere nei tratti di quel bambino il Re che cercavano, il Dio verso il
quale la stella li aveva orientati. In Lui, colmando il fossato esistente tra
il finito e l’infinito, tra il visibile e l’invisibile, l’Eterno è entrato nel
tempo, il Mistero si è fatto conoscere consegnandosi a noi nelle membra fragili
di un piccolo bambino. “I Magi sono pieni di stupore davanti a ciò che vedono;
il cielo sulla terra e la terra nel cielo; l’uomo in Dio e Dio nell’uomo; vedono
racchiuso in un piccolissimo corpo chi non può essere contenuto da tutto il
mondo” (San Pietro Crisologo, Sermone 160, n. 2). Durante queste
giornate, in quest’“Anno dell’Eucaristia”, ci volgeremo con lo stesso stupore
verso Cristo presente nel Tabernacolo della misericordia, nel Sacramento
dell’Altare.
Cari giovani, la
felicità che cercate, la felicità che avete diritto di gustare ha un nome, un
volto: quello di Gesù di Nazareth, nascosto nell’Eucaristia. Solo lui dà
pienezza di vita all’umanità! Con Maria, dite il vostro “sì” a quel Dio che
intende donarsi a voi. Vi ripeto oggi quanto ho detto all’inizio del mio
pontificato: “Chi fa entrare Cristo [nella propria vita] non perde nulla, nulla
- assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No, solo
in questa amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in questa amicizia
si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in
questa amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera” (Omelia
per l’inizio del ministero di Supremo Pastore, 24 aprile 2005). Siatene
pienamente convinti: Cristo nulla toglie di quanto avete in voi di bello e di
grande, ma porta tutto a perfezione per la gloria di Dio, la felicità degli
uomini, la salvezza del mondo.
In queste giornate vi
invito ad impegnarvi senza riserve a servire Cristo, costi quel che costi.
L’incontro con Gesù Cristo vi permetterà di gustare interiormente la gioia
della sua presenza viva e vivificante per poi testimoniarla intorno a voi. Che
la vostra presenza in questa città sia già il primo segno di annuncio del
Vangelo mediante la testimonianza del vostro comportamento e della vostra gioia
di vivere. Facciamo salire dal nostro cuore un inno di lode e di azione di
grazie al Padre per i tanti benefici che ci ha concesso e per il dono della
fede che celebreremo insieme, manifestandolo al mondo da questa terra posta al
centro dell’Europa, di un’Europa che molto deve al Vangelo e ai suoi testimoni
lungo i secoli.
Mi
farò ora pellegrino alla cattedrale di Colonia per venerarvi le reliquie dei
santi Magi, che hanno accettato di lasciare tutto per seguire la stella che li
guidava al Salvatore del genere umano. Anche voi, cari giovani, avete già
avuto, o avrete, l’occasione di fare lo stesso pellegrinaggio. Queste reliquie
non sono che il segno fragile e povero di ciò che essi furono e di ciò che essi
vissero tanti secoli or sono. Le reliquie ci indirizzano a Dio stesso: è Lui
infatti che, con la forza della sua grazia, concede ad esseri fragili il
coraggio di testimoniarlo davanti al mondo. Invitandoci a venerare i resti
mortali dei martiri e dei santi, la Chiesa non dimentica che, in definitiva, si
tratta sì di povere ossa umane, ma di ossa che appartenevano a persone visitate
dalla potenza trascendente di Dio. Le reliquie dei santi sono tracce di quella
presenza invisibile ma reale che illumina le tenebre del mondo, manifestando il
Regno dei cieli che è dentro di noi. Esse gridano con noi e per noi:
“Maranatha!” - “Vieni Signore Gesù!”.
Nel nostro pellegrinaggio
con i misteriosi Magi dell’Oriente siamo giunti a quel momento che san Matteo
nel suo Vangelo ci descrive così: “Entrati nella casa (sulla quale la stella si
era fermata), videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo
adorarono” (Mt 2,11). Il cammino esteriore di quegli uomini era finito.
Erano giunti alla meta. Ma a questo punto per loro comincia un nuovo cammino,
un pellegrinaggio interiore che cambia tutta la loro vita. Poiché sicuramente
avevano immaginato questo Re neonato in modo diverso. Si erano appunto fermati
a Gerusalemme per raccogliere presso il Re locale notizie sul promesso Re che
era nato. Sapevano che il mondo era in disordine, e per questo il loro cuore
era inquieto. Erano certi che Dio esisteva e che era un Dio giusto e benigno. E
forse avevano anche sentito parlare delle grandi profezie in cui i profeti
d’Israele annunciavano un Re che sarebbe stato in intima armonia con Dio, e che
a nome e per conto di Lui avrebbe ristabilito il mondo nel suo ordine. Per
cercare questo Re si erano messi in cammino: dal profondo del loro intimo erano
alla ricerca del diritto, della giustizia che doveva venire da Dio, e volevano
servire quel Re, prostrarsi ai suoi piedi e così servire essi stessi al
rinnovamento del mondo. Appartenevano a quel genere di persone “che hanno fame
e sete della giustizia” (Mt 5,6). Questa fame e questa sete avevano
seguito nel loro pellegrinaggio – si erano fatti pellegrini in cerca della
giustizia che aspettavano da Dio, per potersi mettere al servizio di essa.
Anche se gli altri
uomini, quelli rimasti a casa, li ritenevano forse utopisti e sognatori – essi
invece erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il
mondo bisogna disporre del potere. Per questo non potevano cercare il bambino
della promessa se non nel palazzo del Re. Ora però s’inchinano davanti a un
bimbo di povera gente, e ben presto vengono a sapere che Erode – quel Re dal
quale si erano recati – con il suo potere intendeva insidiarlo, così che alla
famiglia non sarebbe restata che la fuga e l’esilio. Il nuovo Re, davanti al
quale si erano prostrati in adorazione, si differenziava molto dalla loro
attesa. Così dovevano imparare che Dio è diverso da come noi di solito lo
immaginiamo. Qui cominciò il loro cammino interiore. Cominciò nello stesso
momento in cui si prostrarono davanti a questo bambino e lo riconobbero come il
Re promesso. Ma questi gesti gioiosi essi dovevano ancora raggiungerli
interiormente.
Dovevano cambiare la
loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo e, facendo questo, dovevano anche
cambiare se stessi. Ora vedevano: il potere di Dio è diverso dal potere dei
potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo
e da come vorremmo imporlo anche a Lui. Dio in questo mondo non entra in concorrenza
con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre
divisioni. A Gesù, nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di
angeli per aiutarlo (cfr Mt 26,53). Egli contrappone al potere rumoroso
e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce – e
poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe, e tuttavia costituisce
la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di
Dio. Dio è diverso – è questo che ora riconoscono. E ciò significa che ora essi
stessi devono diventare diversi, devono imparare lo stile di Dio.
Erano venuti per
mettersi a servizio di questo Re, per modellare la loro regalità sulla sua. Era
questo il significato del loro gesto di ossequio, della loro adorazione. Di
essa facevano parte anche i regali – oro, incenso e mirra – doni che si
offrivano a un Re ritenuto divino. L’adorazione ha un contenuto e comporta
anche un dono. Volendo con il gesto dell’adorazione riconoscere questo bambino
come il loro Re al cui servizio intendevano mettere il proprio potere e le
proprie possibilità, gli uomini provenienti dall’Oriente seguivano senz’altro
la traccia giusta. Servendo e seguendo Lui, volevano insieme con Lui servire la
causa della giustizia e del bene nel mondo. E in questo avevano ragione. Ora
però imparano che ciò non può essere realizzato semplicemente per mezzo di
comandi e dall’alto di un trono. Ora imparano che devono donare se stessi – un
dono minore di questo non basta per questo Re. Ora imparano che la loro vita
deve conformarsi a questo modo divino di esercitare il potere, a questo
modo d’essere di Dio stesso. Devono diventare uomini della verità, del diritto,
della bontà, del perdono, della misericordia. Non domanderanno più: Questo a
che cosa mi serve? Dovranno invece domandare: Con che cosa servo io la presenza
di Dio nel mondo? Devono imparare a perdere se stessi e proprio così a trovare
se stessi. Andando via da Gerusalemme, devono rimanere sulle orme del vero Re,
al seguito di Gesù.
Cari amici, ci
domandiamo che cosa tutto questo significhi per noi. Poiché quello che abbiamo
appena detto sulla natura diversa di Dio, che deve orientare la nostra vita,
suona bello, ma resta piuttosto sfumato e vago. Per questo Dio ci ha donato
degli esempi. I Magi provenienti dall’Oriente sono soltanto i primi di una
lunga processione di uomini e donne che nella loro vita hanno costantemente
cercato con lo sguardo la stella di Dio, che hanno cercato quel Dio che a noi,
esseri umani, è vicino e ci indica la strada. È la grande schiera dei santi –
noti o sconosciuti – mediante i quali il Signore, lungo la storia, ha aperto
davanti a noi il Vangelo e ne ha sfogliato le pagine; questo, Egli sta facendo
tuttora. Nelle loro vite, come in un grande libro illustrato, si svela la
ricchezza del Vangelo. Essi sono la scia luminosa di Dio che Egli stesso lungo
la storia ha tracciato e traccia ancora. Il mio venerato predecessore Papa
Giovanni Paolo II ha beatificato e canonizzato una grande schiera di persone di
epoche lontane e vicine. In queste figure ha voluto dimostrarci come si fa ad
essere cristiani; come si fa a svolgere la propria vita in modo giusto – a
vivere secondo il modo di Dio. I beati e i santi sono stati persone che non
hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto
donarsi, perché sono state raggiunte dalla luce di Cristo. Essi ci indicano
così la strada per diventare felici, ci mostrano come si riesce ad essere
persone veramente umane. Nelle vicende della storia sono stati essi i veri
riformatori che tante volte l’hanno risollevata dalle valli oscure nelle quali
è sempre nuovamente in pericolo di sprofondare; essi l’hanno sempre nuovamente
illuminata quanto era necessario per dare la possibilità di accettare – magari
nel dolore – la parola pronunciata da Dio al termine dell’opera della
creazione: “È cosa buona”. Basta pensare a figure come San Benedetto, San
Francesco d’Assisi, Santa Teresa d’Avila, Sant’Ignazio di Loyola, San Carlo
Borromeo, ai fondatori degli Ordini religiosi dell’Ottocento che hanno animato
e orientato il movimento sociale, o ai santi del nostro tempo – Massimiliano
Kolbe, Edith Stein, Madre Teresa, Padre Pio. Contemplando queste figure
impariamo che cosa significa “adorare”, e che cosa vuol dire vivere secondo la
misura del bambino di Betlemme, secondo la misura di Gesù Cristo e di Dio
stesso.
I santi, abbiamo
detto, sono i veri riformatori. Ora vorrei esprimerlo in modo ancora più
radicale: Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento
decisivo del mondo. Nel secolo appena passato abbiamo vissuto le rivoluzioni,
il cui programma comune era di non attendere più l’intervento di Dio, ma di
prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto
che, con ciò, sempre un punto di vista umano e parziale veniva preso come
misura assoluta d’orientamento. L’assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma
relativo si chiama totalitarismo. Non libera l’uomo, ma gli toglie la sua
dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma
soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della
nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione
vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò
che è giusto e allo stesso tempo è l’amore eterno. E che cosa mai potrebbe
salvarci se non l’amore?
Cari amici!
Permettetemi di aggiungere soltanto due brevi pensieri. Sono molti coloro che
parlano di Dio; nel nome di Dio si predica anche l’odio e si esercita la
violenza. Perciò è importante scoprire il vero volto di Dio. I Magi
dell’Oriente l’hanno trovato, quando si sono prostrati davanti al bambino di
Betlemme. “Chi ha visto me ha visto il Padre”, diceva Gesù a Filippo (Gv
14,9). In Gesù Cristo, che per noi ha permesso che si trafiggesse il suo
cuore, in Lui è comparso il vero volto di Dio. Lo seguiremo insieme con la
grande schiera di coloro che ci hanno preceduto. Allora cammineremo sulla via
giusta.
Questo significa che
non ci costruiamo un Dio privato, un Gesù privato, ma che crediamo e ci
prostriamo davanti a quel Gesù che ci viene mostrato dalle Sacre Scritture e
che nella grande processione dei fedeli chiamata Chiesa si rivela vivente,
sempre con noi e al tempo stesso sempre davanti a noi. Si può criticare molto
la Chiesa. Noi lo sappiamo, e il Signore stesso ce l’ha detto: essa è una rete
con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania.
Papa Giovanni Paolo II, che nei tanti beati e santi ci ha mostrato il volto
vero della Chiesa, ha anche chiesto perdono per ciò che nel corso della storia,
a motivo dell’agire e del parlare di uomini di Chiesa, è avvenuto di male. In
tal modo fa vedere anche a noi la nostra vera immagine e ci esorta ad entrare
con tutti i nostri difetti e debolezze nella processione dei santi, che con i
Magi dell’Oriente ha preso il suo inizio. In fondo, è consolante il fatto che
esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo
tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato
proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo
stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio
di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni.
Perciò siamo lieti di appartenere a questa grande famiglia; siamo lieti di
avere fratelli e amici in tutto il mondo. Lo sperimentiamo proprio qui a
Colonia quanto sia bello appartenere ad una famiglia vasta come il mondo, che
comprende il cielo e la terra, il passato, il presente e il futuro e tutte le
parti della terra. In questa grande comitiva di pellegrini camminiamo insieme
con Cristo, camminiamo con la stella che illumina la storia.
“Entrati
nella casa, videro il bambino e Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt
2,11). Cari amici, questa non è una storia lontana, avvenuta tanto tempo fa.
Questa è presenza. Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi.
Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio
così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che
cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cfr Gv
12,24). Egli è presente come allora in Betlemme. Ci invita a quel
pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Mettiamoci ora in cammino
per questo pellegrinaggio e chiediamo a Lui di guidarci. Amen.
Davanti all’Ostia
sacra, nella quale Gesù per noi si è fatto pane che dall’interno sostiene e
nutre la nostra vita (cfr Gv 6,35), abbiamo ieri sera cominciato il
cammino interiore dell’adorazione. Nell’Eucaristia l’adorazione deve diventare
unione. Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell’“ora” di Gesù di
cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l’Eucaristia questa sua “ora”
diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli
Egli celebrò la cena pasquale d’Israele, il memoriale dell’azione liberatrice
di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i
riti d’Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però
avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del
passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la
Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono
la somma della Legge e dei Profeti: “Questo è il mio Corpo dato in sacrificio
per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue”. E così distribuisce
il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo
in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.
Che cosa sta
succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del
pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte,
l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore. Quello che
dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto di un amore che
si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel
cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui
termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui
Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Già da sempre tutti gli
uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una
trasformazione del mondo. Ora questo è l’atto centrale di trasformazione che
solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in
amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore,
la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la
risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può
più essere lei l’ultima parola. È questa, per usare un’immagine a noi oggi ben
nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell’essere – la vittoria
dell’amore sull’odio, la vittoria dell’amore sulla morte. Soltanto questa
intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di
trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri
cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di
redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo
entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché
realmente dona se stesso.
Questa prima
fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita
trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo
e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui
che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi
affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo
diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma
questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L’adorazione, abbiamo
detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il
Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci
penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo,
perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo. Io trovo
un’allusione molto bella a questo nuovo passo che l’Ultima Cena ci ha donato
nella differente accezione che la parola “adorazione” ha in greco e in latino.
La parola greca suona proskynesis. Essa significa il gesto della
sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma
accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita,
ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità
e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni. Questo gesto è
necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste a
questa prospettiva. Il farla completamente nostra sarà possibile soltanto nel
secondo passo che l’Ultima Cena ci dischiude. La parola latina per adorazione è
ad-oratio – contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo
amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo
è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose
estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere.
Torniamo ancora
all’Ultima Cena. La novità che lì si verificò, stava nella nuova profondità
dell’antica preghiera di benedizione d’Israele, che da allora diventa la parola
della trasformazione e dona a noi la partecipazione all’“ora” di Cristo. Gesù
non ci ha dato il compito di ripetere la Cena pasquale che, del resto, in
quanto anniversario, non è ripetibile a piacimento. Ci ha dato il compito di entrare
nella sua “ora”. Entriamo in essa mediante la parola del potere sacro della
consacrazione – una trasformazione che si realizza mediante la preghiera di
lode, che ci pone in continuità con Israele e con tutta la storia della
salvezza, e al contempo ci dona la novità verso cui quella preghiera per sua
intima natura tendeva. Questa preghiera – chiamata dalla Chiesa “preghiera
eucaristica” – pone in essere l’Eucaristia. Essa è parola di potere, che
trasforma i doni della terra in modo del tutto nuovo nel dono di sé di Dio e ci
coinvolge in questo processo di trasformazione. Per questo chiamiamo questo
avvenimento Eucaristia, che è la traduzione della parola ebraica beracha
– ringraziamento, lode, benedizione, e così trasformazione a partire dal
Signore: presenza della sua “ora”. L’ora di Gesù è l’ora in cui vince l’amore.
In altri termini: è Dio che ha vinto, perché Egli è l’Amore. L’ora di Gesù
vuole diventare la nostra ora e lo diventerà, se noi, mediante la celebrazione
dell’Eucaristia, ci lasciamo tirare dentro quel processo di trasformazioni che
il Signore ha di mira. L’Eucaristia deve diventare il centro della nostra vita.
Non è positivismo o brama di potere, se la Chiesa ci dice che l’Eucaristia è
parte della domenica. Al mattino di Pasqua, prima le donne e poi i discepoli
ebbero la grazia di vedere il Signore. D’allora in poi essi seppero che ormai
il primo giorno della settimana, la domenica, sarebbe stato il giorno di Lui,
di Cristo. Il giorno dell’inizio della creazione diventava il giorno del rinnovamento
della creazione. Creazione e redenzione vanno insieme. Per questo è così
importante la domenica. È bello che oggi, in molte culture, la domenica sia un
giorno libero o, insieme col sabato, costituisca addirittura il cosiddetto
“fine-settimana” libero. Questo tempo libero, tuttavia, rimane vuoto se in esso
non c’è Dio. Cari amici! Qualche volta, in un primo momento, può risultare
piuttosto scomodo dover programmare nella domenica anche la Messa. Ma se vi
ponete impegno, constaterete poi che è proprio questo che dà il giusto centro
al tempo libero. Non lasciatevi dissuadere dal partecipare all’Eucaristia
domenicale ed aiutate anche gli altri a scoprirla. Certo, perché da essa si
sprigioni la gioia di cui abbiamo bisogno, dobbiamo imparare a comprenderla
sempre di più nelle sue profondità, dobbiamo imparare ad amarla. Impegniamoci
in questo senso – ne vale la pena! Scopriamo l’intima ricchezza della liturgia
della Chiesa e la sua vera grandezza: non siamo noi a far festa per noi,
ma è invece lo stesso Dio vivente a preparare per noi una festa. Con l’amore
per l’Eucaristia riscoprirete anche il sacramento della Riconciliazione, nel
quale la bontà misericordiosa di Dio consente sempre un nuovo inizio alla
nostra vita.
Chi ha scoperto
Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per
sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana
dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Ma al
tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di
tutto e di tutti. Vien fatto di esclamare: Non è possibile che questa sia la
vita! Davvero no. E così insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un boom
del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c’è in questo contesto. Può
esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di
rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che
piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla
maniera del “fai da te” alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell’ora della
crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella
che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre
meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per
questo è così importante l’amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza,
importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della
Scrittura. È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua fede crescente e
l’ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della verità (cfr Gv
16,13). Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un’opera meravigliosa, nella quale
la fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale
Catechismo, che è stato elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri
fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi.
Ovviamente, i libri
da soli non bastano. Formate delle comunità sulla base della fede! Negli ultimi
decenni sono nati movimenti e comunità in cui la forza del Vangelo si fa
sentire con vivacità. Cercate la comunione nella fede come compagni di cammino
che insieme continuano a seguire la strada del grande pellegrinaggio che i Magi
dell’Oriente ci hanno indicato per primi. La spontaneità delle nuove comunità è
importante, ma è pure importante conservare la comunione col Papa e con i
Vescovi. Sono essi a garantire che non si sta cercando dei sentieri privati, ma
invece si sta vivendo in quella grande famiglia di Dio che il Signore ha
fondato con i dodici Apostoli.
Ancora una volta devo
ritornare all’Eucaristia. “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti,
siamo un corpo solo” dice san Paolo (1 Cor 10,17). Con ciò intende dire:
Poiché riceviamo il medesimo Signore ed Egli ci accoglie e ci attira dentro di
sé, siamo una cosa sola anche tra di noi. Questo deve manifestarsi nella vita.
Deve mostrarsi nella capacità del perdono. Deve manifestarsi nella sensibilità
per le necessità dell’altro. Deve manifestarsi nella disponibilità a
condividere. Deve manifestarsi nell’impegno per il prossimo, per quello vicino
come per quello esternamente lontano, che però ci riguarda sempre da vicino.
Esistono oggi forme di volontariato, modelli di servizio vicendevole, di cui
proprio la nostra società ha urgentemente bisogno. Non dobbiamo, ad esempio,
abbandonare gli anziani alla loro solitudine, non dobbiamo passare oltre di
fronte ai sofferenti. Se pensiamo e viviamo in virtù della comunione con
Cristo, allora ci si aprono gli occhi. Allora non ci adatteremo più a
vivacchiare preoccupati solo di noi stessi, ma vedremo dove e come siamo
necessari. Vivendo ed agendo così ci accorgeremo ben presto che è molto più
bello essere utili e stare a disposizione degli altri che preoccuparsi solo
delle comodità che ci vengono offerte. Io so che voi come giovani aspirate alle
cose grandi, che volete impegnarvi per un mondo migliore. Dimostratelo agli
uomini, dimostratelo al mondo, che aspetta proprio questa testimonianza dai
discepoli di Gesù Cristo e che, soprattutto mediante il vostro amore, potrà
scoprire la stella che noi seguiamo.
Andiamo
avanti con Cristo e viviamo la nostra vita da veri adoratori di Dio! Amen.
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Dario Argento: Suspiria / CDE
Romolo Mantovani: La Paix Universelle
/ Amour et Vie
Romolo Mantovani: La Pace
Universale / Natura, Amore e Vita
Santa Faustina Kowalska: Diario.
La Misericordia Divina nella mia anima / Libreria Editrice Vaticana
Antonio BIGLIARDI
antoniob64@libero.it
digilander.libero.it/antoniobigliardi
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